CENNI STORICI SUL DENARIUS

Marco Valentini

Le prime monete romane d’argento furono verosimilmente coniate in Campania tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C., ossia dopo l’assoggettamento della regione a Roma, anche nell’ottica di favorire gli scambi con la Magna Graecia dove era forte l’influenza greca e la monetazione basata sull’argento. La tipologia più importante di queste monete “romano-campane” fu il didramma d’argento (pari cioè a due dracme e inizialmente di ca. 7 grammi di peso), in particolare il cosiddetto “quadrigato”, dall’immagine di quadriga riportata sul retro della moneta, il quale sarebbe stato prodotto in quantità abbastanza significativa a partire dal 225 a.C. (cfr. Catalli, 2001, p. 109).

“Quadrigato” repubblicano (5,83 gr.), AR, 269-215 a.C. (Collezione Privata)

Nel libro XXXIII (par. 42-47) della Historia Naturalis, testo sicuramente piuttosto ermetico che si presta a svariate interpretazioni, Plinio Seniore scrive che il popolo romano non usò l’argento coniato (signato) prima della vittoria su Pirro (275 a.C.) e, di seguito nel testo citato, che Roma incominciò a coniare l’argento nel 485 dopo la fondazione di Roma ossia cinque anni prima della prima guerra punica, cioè nel 269 a.C.. Tradizionalmente, fino alla fine del XIX secolo, tale data fu interpretata dagli storici e numismatici come la data di inizio della coniazione del denarius d’argento. Secondo le moderne teorie numismatiche, invece, c’è un certo consensus nel ritenere che le prime emissioni del denario siano avvenute nel corso della seconda guerra punica, intorno al 215-211 a.C. [1], in presenza di una riduzione del peso dell’asse ad almeno un sestante di libbra (due once), ipotesi coerente con quanto riportato da Festo riguardo l’inizio dell’uso degli asses sextantarii durante la seconda guerra punica (cfr. Catalli, 2001, p. 46). Secondo quest’approccio, sarebbe chiaramente un errore quanto riportato da Plinio (op.cit.), ossia che un denario fosse uguale a dieci assi librali (“…et placuit denarium pro X libris aeris valere…”). Nel tentativo di riconciliare le moderne ricerche archeologiche e numismatiche con i testi classici, è stato ipotizzato che il citato passo di Plinio, che indica nel 269 l’inizio della coniazione dell’argento, potesse riferirsi all’inizio della coniazione a Roma dei “quadrigati” romano-campani (non del denario) e che il 275 a.C., altra data che Plinio indica per l’inizio dell’uso della moneta d’argento, potesse invece riferirsi all’inizio dell’uso delle monete d’argento fatte coniare da Roma nelle zecche campane. Comunque, appare verosimile che la moneta d’argento si sia diffusa nell’economia romana soprattutto dopo la fine della seconda guerra punica (202 a.C.), anche grazie all’aumento della quantità di argento derivante dal pagamento dei danni di guerra imposto ai Cartaginesi e dallo sfruttamento delle miniere iberiche passate sotto il controllo romano.

Con l’introduzione del denario, la monetazione d’argento e quella, più antica, basata sul rame/bronzo furono agganciate in un rapporto fisso di cambio e fu stabilito che il denario valesse dieci assi di bronzo (“denarii quod denos aeris valebant[2]). La nuova moneta d’argento, di fatto, riempì lo spazio lasciato libero dal decussis, pesante moneta fusa di bronzo pari a dieci assi [3], che fu prodotta verosimilmente in basse quantità. Oltre al denarius (sul quale era raffigurato il segno di valore X), furono introdotte altre due monete d’argento, il quinarius (con il segno V) che era pari a cinque assi e il sestertius che valeva due assi e mezzo, cioè due assi e metà del terzo asse, da cui il nome semi-tertius, contratto poi in sestertius (IIS ne era il simbolo).

Denario (4,55 gr.), Quinario (1,80 gr.), Sesterzio (1,0 gr.), AR, ca. 215-211 a.C. (Collezione privata)

Inizialmente, il denario pesava 1/72 di libbra romana (circa 4,5 grammi), cioè sostanzialmente come una dracma attica, ma già in epoca repubblicana il peso scese a uno standard teorico di circa 3,9 grammi. Il denario andò a sostituire le altre monete d’argento emesse dalla Res Publica, in particolare il già citato “quadrigato” e il cosiddetto “vittoriato” (dalla Vittoria alata raffigurata su tale moneta che, inizialmente, pesava intorno ai 3,4 grammi, cioè circa la metà del più antico “quadrigato”). Probabilmente intorno al 141 a.C. (cfr. Crawford, 1974, p. 613), si procedette a una variazione del cambio tra denario e asse di bronzo e fu stabilito che un denario dovesse valere 16 assi, il quinario 8 assi e il sesterzio 4 assi. Dal principato di Augusto in poi, il sesterzio divenne una moneta aenea, ossia a base di rame, ma rimase invariato il cambio con il denario (1 denario = 4 sesterzi).

Anche dopo l’introduzione dell’aureo (la cui coniazione divenne abbastanza regolare solo sotto il governo di Cesare e, dopo la fine delle guerre civili, con il principato di Ottaviano), il sistema monetario romano, per i fini commerciali, rimase sostanzialmente bimetallico, ossia basato prevalentemente sulle monete d’argento e di rame. L’oro, per usare la moderna terminologia sulle funzioni della moneta, rivestiva prevalentemente la funzione di riserva di valore mentre le funzioni di numerario e mezzo di scambio per la compravendita di merci erano svolte prevalentemente dalle monete d’argento e di rame/bronzo.

Con la riforma monetaria di Ottaviano Augusto (23 a.C.), fu stabilito che l’aureo pesasse circa 7,8 grammi, ossia 1/42 di libra romana (ca. 327 grammi) e il denario d’argento ca. 3,9 grammi (1/84 di libbra), cioè la metà dell’aureo, il che facilitava la stima del valore delle monete e il cambio che fu stabilito essere pari a 1 aureo per 25 denari.

La riforma di Nerone del 64 d.C., tra l’altro, portò il peso del denario a 3,4 grammi, cioè da 1/84 a 1/96 di libbra, diminuendo anche il contenuto di fino dal 97% al 93% circa, realizzando perciò una diminuzione del valore intrinseco del denario, grosso modo, del 18,5% rispetto ai valori augustei. Contemporaneamente, fu ridotto anche il peso dell’aureo da g. 7,80 a g. 7,30 circa, cioè da 1/40 di libbra romana a 1/45, ma la percentuale di fino non fu però diminuita.

Il denario, successivamente, fu soggetto a svalutazioni, ufficiali o de facto, del suo valore intrinseco per far fronte alle crescenti necessità economico/finanziarie dell’Impero. Con la riforma di Marco Aurelio, il contenuto d’argento del denario fu diminuito fino al 75% del metallo totale utilizzato nella produzione delle monete, sebbene il mantenimento del cambio con l’aureo, il cui valore intrinseco dalla riforma di Nerone non era variato significativamente, assicurava la normale circolazione del denario che, pertanto, veniva trasformato sempre più in una moneta con una significativa componente fiduciaria, sebbene comunque convertibile in buon oro.  

Le tipologie di monete e i concambi, stabiliti dalla riforma di Augusto, rimasero comunque vigenti fino alla riforma di Caracalla (214-215 d.C.). Con la riforma di Caracalla fu introdotta, tra l’altro, una nuova moneta di argento, l’antoninianus (teoricamente pari a due denari), che divenne la principale moneta di riferimento nel III secolo, soppiantando via via il vecchio denarius.

Antoniniano di Caracalla (5,40 gr.), AR, 214-215 d.C. (Collezione Privata)

Però, a causa dell’instabilità finanziaria del periodo, l’antoniniano fu progressivamente svalutato riducendo il contenuto di argento, fino a diventare in pochi decenni una moneta di rame argentata. Aureliano (272-275 d.C.), secondo molti studiosi, stabilì che l’antoniniano dovesse contenere almeno il 5% di argento, per cui si è ipotizzato che la cifra XXI, riportata in esergo sul rovescio degli antoniniani di Aureliano e dei suoi successori fino Diocleziano, significhi appunto venti parti di bronzo e una di argento.

Antoniniano di Aureliano (3,18 gr.), Mistura, 272-275 d.C. (Collezione privata)

Con la riforma di Diocleziano (295 d.C.) fu introdotta una nuova moneta d’argento di buona qualità, l’argenteus, con un peso di ca. 1,94 grammi, pertanto inferiore al vecchio denario. Nell’ambito della riforma dioclezianea, col termine denarius venne invece denominata una piccola moneta bronzea che divenne la nuova unità di base del sistema monetario romano.

Con la riforma monetaria di Costantino (324 d.C.), il termine denarius sparirà completamente dal vocabolario monetario imperiale. Il sistema monetario romano, da Costantino in poi, si focalizzerà sulla nuova moneta aurea, il solidus (4,54 g., cioè 1/72 di libbra), per le grandi transazioni e su quella bronzea per il commercio minuto. Le monete d’argentomiliarensis (4,54 g.) e siliqua (3,41 g.) – continueranno ad essere prodotte ma in quantità significativamente inferiori rispetto alla produzione di denari del I e II secolo, fatto che sancirà la fine della moneta d’argento come moneta principale di riferimento e scambio del sistema economico-finanziario imperiale.

Siliqua di Costanzo II (3,11 gr.), AR, 251-255 d.C. (Collezione privata)

Le crisi economico-finanziarie che colpirono l’Impero Romano nel III secolo, infatti, avevano  minato la fiducia nella moneta argentea che, come sopra accennato, a causa della continua diminuzione del valore intrinseco, si era trasformata in una moneta quasi-fiduciaria (come la moneta bronzea lo era diventata già dalla fine dell’era repubblicana quando si assistette, soprattutto durante le guerre puniche, ad una continua e veloce svalutazione, in termini di metallo contenuto, dell’asse di bronzo). Con la riforma di Costantino, il solidus, moneta aurea ad elevato valore intrinseco, diventò la moneta di riferimento e sopravvisse al crollo della pars occidentalis dell’Impero continuando ad essere coniata sia nell’Impero Romano d’oriente (c.d. “Bizantino”) sia nei regni romano-barbarici dell’Europa occidentale.

Nel Medioevo si tornerà ad evocare l’antico denarius quando, nei documenti ufficiali ancora scritti in latino, con tale termine si tornerà ad indicare una nuova moneta d’argento coniata nell’Europa occidentale dominata dai Franchi, popolazione di origine germanica. Tale moneta, che con l’affermarsi delle lingue romanze verrà chiamata denier in francese e “denaro” in italiano (parola che diventerà sinonimo di moneta in generale), fu tra i pochi nominali che continueranno a circolare nell’Europa occidentale tra l’VIII e la fine dell’XI secolo quando la moneta aurea cessò di essere coniata [4]. Nell’ambito della riforma monetaria di Carlo Magno del 793-794, il denarius/denier (pari a ca. 1,70 grammi) venne collegato a due unità di conto non circolanti, il solidus (che richiamava l’antica moneta aurea e che diventerà “soldo” in italiano e sol o sou in francese) e la libra (misura ponderale pari, nel Medioevo, a ca. 408 grammi). Il denaro d’argento di Carlo Magno fu collegato alle predette unità di conto secondo la seguente identità: 240 denari = 20 soldi = 1 libbra d’argento. Tale sistema valutario rimase, sostanzialmente, lo standard monetario di riferimento dell’Europa occidentale per molti secoli, fino alla Rivoluzione Francese.

Denaro di Carlo Magno (1,70 gr.), AR, 794-814 d.C. (Fonte: Varesi Numismatica, Asta 68 2016)

Nell’oriente arabo, invece, l’antica moneta romana sopravvisse etimologicamente nel dinar (tramite il greco denarion), termine che però indicava una moneta d’oro inizialmente (fine del VII secolo) coniata sul piede del solido bizantino [5].

© 2022 Marco Valentini – Articolo pubblicato su “Gazzettino di Quelli del Cordusio”, n. 9, Maggio 2022


[1] Sulla base di ricerche archeologiche effettuate nella città di Morgantina in Sicilia, Crawford (1974) identifica nel 211 a.C., di fatto, un terminus ante quem per l’esistenza del denario, cosa che logicamente non preclude le ipotesi di una datazione più alta del denario romano.

[2] Varrone, De Lingua Latina, Liber V, 168-176.

[3] Dal peso dei pochi esemplari disponibili, si ipotizza che il decusse sia stato emesso successivamente alla riduzione semilibrale dell’asse (avvenuta intorno al 217 a.C. secondo il Crawford o al 300 a.C. secondo la teoria tradizionale) e prima della riduzione sestantale.

[4] Dopo il crollo dell’Impero Romano d’occidente, l’economia medioevale dell’Europa occidentale (soprattutto quella dell’Europa centrale più lontana dalle coste mediterranee) era ormai in larga parte demonetizzata e nel commercio si utilizzavano come mezzi di scambio diverse merci, come il grano o l’equivalente in lavoro del valore di un determinato bene. La moneta, quando utilizzata, rappresentava uno dei tanti mezzi di pagamento, sebbene continuasse ad essere utilizzata come unità di conto (cfr. Cipolla, 2020).

[5] Gli Arabi continuarono, invece, ad utilizzare il termine persiano dirham per indicare la moneta d’argento, parola etimologicamente legata alla dracma greca (δραχμή) che, anche in epoca romana, rimase una delle principali monete d’argento utilizzata nelle province orientali.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Amisano G., I sistemi monetari dei popoli antichi, Panorama Numismatico, n. 74, 1994

Carlà F., Marcone A., Economia e Finanza a Roma, Il Mulino, Bologna, 2011

Catalli F., La monetazione romana repubblicana, IPZS, Roma, 2001

Cipolla C.M., Moneta e civiltà mediterranea, Il Mulino, Bologna, (ristampa) 2020

Crawford M.H., Roman Republican Coinage, Cambridge University Press, 1974 (9th printing 2008)

Duncan-Jones R., Money and Government in the Roman Empire, Cambridge University Press, 1994

Esposito M.C., La riforma monetaria di Augusto, Numismatica Salentina, 25 agosto 2016.

Diegi R., Le monete di Marco Aurelio e Lucio Vero, http://www.panorama-numismatico.com, 22/05/2013

Garucci P.R., Le monete dell’Italia antica. Raccolta generale, Salviucci, Roma, 1885

Mommsen Th., Histoire de la monnaie romaine, Tome 1, trad. par le Duc de Blacas, Forni Editore, Bologna, 1865

Valentini M., Cenni sulla nascita della moneta e dei primi intermediari finanziari nell’Antica Roma, Panorama Numismatico, n. 372, 2021

Verboven J., Currency, bullion and accounts. Monetary modes in the Roman world, Revue Belge de Numismatique et de Sigillographie, n. 155, pp. 91-121, 2009

FONTI CLASSICHE

Plinio Seniore, 77-79 AD, Naturalis Historiae, Liber XXXIII, a cura di E. Page et alia, Harvard Univ. Press, Cambridge, Massachusetts, 1961.

Varrone M.T. , 47-45 a.C., De Lingua Latina, Liber V, a cura di G. Goetz e F.Schoell, Lipsia, 1910

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